È nella sovente discussione tra fotografia “fine-art” e fotografia “commerciale” che si annida un germe pericolosissimo per questa arte: l’illusione del libero arbitrio artistico.
Tale riflessione, scaturisce dalla lettura dell’articolo “Fine-art photography vs. editorial photography. What are the differences? Guidelines for to work in the photography field” di Michele Pero articolo che mi trova concorde per alcuni aspetti, ma non sulla differenziazione delle stesse. Sicuramente non ho esclamato: ‟Oh mio Dio! Sta ponendo una linea tra le due cose!” e tantomeno lo attaccherò. L’apparente discordia tra le due, null’altro è che un conflitto tra appellativi.
Ad alimentare questo grande frainteso è lei e sempre lei: “Madama Committenza”. Spesso la risposta alla domanda, cos’è l’una e cos’è l’altra, è che nella fotografia fine-art, il fotografo scatta foto per il suo puro piacere e per compiacere se stesso; nella fotografia commerciale, il fotografo lavora su committenza.
Ed ecco che la “committenza” torna ad offuscare le nostre menti, ma cos’è nello specifico?
Il dizionario Treccani recita:
‟Ordine, dato da un committente, di fornire, o di eseguire un lavoro o altra prestazione. In particolare, l’attività di chi, persona privata o ente pubblico o organo di governo, commissiona ad artisti opere d’arte.„
Nella sopra citata definizione, balza ai nostri occhi come tale parola si leghi ad un’altra molto ricorrente nella trattazione di tale argomento: ‟artisti”.
Sempre dal dizionario Treccani:
‟Artista: chi esercita una delle ‟belle” arti (spec. le arti figurative, o anche la musica e la poesia)„.
Per certo la fotografia rientra nelle arti figurative, Stieglitz dedicò la sua intera vita, per far sì che fosse considerata tale…
Gettando inoltre, uno sguardo al passato, possiamo constatare inequivocabilmente che gli unici a poter commissionare opere d’arte erano i Signori locali e lo stato pontificio, il cui scopo era quello di promuovere, decantare le proprie gesta e fidelizzare il popolo. Tali opere venivano commissionate a coloro che la storia incorona come eccelsi artisti: Michelangelo, Masaccio, Brunelleschi, Bernini ecc. che li eseguivano, seguendo le linee guida dello stesso committente. Una sorta di “arte commerciale”. Anche nel caso del Mecenatismo, dove a fronte di un sostegno economico, l’artista era libero di creare, quest’ultimo enfatizzava il prestigio del committente e ne celebrava i valori… Una diversa forma di committenza, direi occulta, per usare un termine commerciale più attuale.
Per tornare alla nostra riflessione, il fotografo, in quanto artista, deve avere conoscenze degli strumenti a sua disposizione, dei linguaggi visivi, della storia dell’arte (classica), della storia dell’immagine, di composizione, per poi eventualmente, stravolgerle a sua necessità. Attualmente in troppi, nascondono tali carenze dietro termini quali “artistico” o “Fine art”. Non c’è differenza tra le due, ci sono solo sfumature a tenerle separate.
La committenza è diversa. Nella fotografia fine art, non è altri che la parte più recondita di noi, frutto dei nostri bisogni inconsci, di comunicare (insito nell’essere umano) mediante il linguaggio che più ci si confà. Nella fotografia commerciale è vero sì, che il committente è esterno, ma non fa null’altro che chiederci di esprimere i suoi bisogni, le sue necessità, mediante un linguaggio che egli è incapace di usare. Ciò non implica l’annichilimento della nostra visione.
La linea (per tornare all’articolo di Michele Pero), è talmente sottile che si sfalda cambiando di pochissimo il “punto di vista”
Il termine “fotografia”, proviene dall’unione delle parole greche “phos”, “luce” e “graphis”, “scrivere” e pertanto significa “scrivere con la luce”. La fotografia è quindi l’arte di scrivere con la luce, qualunque sia il suo messaggio, che sia poesia o un grido, la fotografia è una soltanto. È unica.